Snorkeling urbano a Ginza stasera (ieri sera, per chi legge). Non so come altro definire la sensazione di immergersi in apnea in un’enorme vasca di pesci rossi (stavo per scrivere gialli ma non mi sarei perdonato la battuta) affollata di palazzi, neon, cartelloni lampeggianti. Una Time Square al cubo.
Si respira brevemente in un negozio, si prende lo slancio e via in strada. Ginza. Avete presente Lost in translation?
Pausa da Mitsukoshi, famoso mall dove i due piani della gastronomia sono degni delle migliori gallerie del museo d’Orsay. Ho assistito ad uno spettacolo molto intrigante.
Ogni dipendente che entrava o usciva da una porta di servizio effettuava il rituale inchino. Chi più chi meno profondo. Ma tutti si inchinavano. Come fa chiunque pratichi un’arte marziale, salendo o scendendo dal tatami del dojo. Non e’ solo un saluto (generico) ai colleghi; e’ soprattutto un saluto al luogo e a ciò che esso rappresenta. Il propio posto di lavoro.
La scena, pregna di una silenziosa ma contagiosa dignita’, ha fatto scorrere nella mia mente una serie di immagini. I tornelli, brunetta, il mio badge, il metaforico gesto dell’ombrello in luogo dell’inchino.
Riusciremo mai, noi italiani, a sviluppare un tale senso di attaccamento al dovere? Non litigheremmo, anche a Porta a porta, sulla regolamentazione dell’angolo dell’inchino? Filogovernativi oltre i novanta gradi, opposizione lieve cenno del capo?
Tra un’immagine ed un inchino, intanto, tutti i commessi sorridevano, salutavano e ringraziavano i tantonolevoliospiti.
Arigato’ gozaimasta’
A
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